Il testo che segue è tratto da “La psicoterapia in Italia. La formazione degli psichiatri”. Atti delle giornate di studio del 30.10.65 e del 11.12.66. A cura del Centro Studi di Psicoterapia Clinica. Milano. Presentato al Symposium sui rapporti fra Psicologia e Psichiatria, Mendola, Settembre 1960.
“Chiunque fa della psicoterapia sa quanta parte del buon esito di un trattamento derivi non dalla fiducia che il paziente ha nel medico, quanto dalla fiducia che il medico stesso ha di poter curare con mezzi psicologici. Questa fiducia è un fatto di fondo che trascende l’esperienza intellettuale di apprendere determinate regole e conformare ad esse il proprio comportamento. Presuppone una esperienza affettiva intensa che, se sul piano personale può aversi nel giro di pochi anni, ne richiederà certo molti di più prima di entrare a far parte del bagaglio culturale di tutta una categoria professionale. Solo una lenta stratificazione di nozioni prima apprese e poi assimilate affettivamente può condurre al sentire psicologico e quindi all’agire psicologico.
Bisogna ora considerare concretamente le modalità con cui tale modificazione possa avvenire, le difficoltà da superare, il modo migliore perchè la influenza di queste difficoltà si faccia sentire il meno possibile a livello del trattamento del paziente.
Facciamo una considerazione di ordine generale: esistono molte persone le quali sono naturalmente dotate della capacità di entrare in rapporto emotivo con gli altri e tendono a sviluppare naturalmente una personalità che è stata definita come «terapeutica». Il criterio principale in base al quale si può giudicare questa capacità è quello della maturità emotiva, assieme all’elevato livello di sicurezza, alla capacità di introspezione ed alla capacità di evitare che le proprie componenti più immature interferiscano in maniera deleteria nel rapporto con l’altro. Queste persone, qualora entrino in rapporto con altre persone aventi conflitti emotivi, sono spesso perfettamente in grado di effettuare quella azione catalizzatrice con cui si può definire la funzione terapeutica. Intuito, capacità di comprendere l’altro dal suo punto di vista, sono le caratteristiche principali che si riscontrano in questi individui, siano essi dei sacerdoti, dei medici, degli educatori. Queste persone possono agire spontaneamente in maniera adeguata dal punto di vista terapeutico.
Aggiungiamo ora a queste persone la componente tecnica, sotto forma di studio specifico di problemi psicologici. Vedremo che il primo fattore che verrà turbato sarà la loro sicurezza e che ciò si ripercuoterà subito in un comportamento meno adeguato nelle stesse situazioni in cui precedentemente si muovevano alla perfezione. Il loro comportamento naturale, spontaneo, sarà ora viziato dal chiedersi che cosa è meglio o che cosa è peggio fare e la caratteristica comune a questa prima fase dell’incontro con la psicologia è il tentativo di uscire dall’insicurezza attraverso delle regole, una tecnica, ma una tecnica che dia una risposta precisa e concreta ad ogni situazione che si presenta: espressione di questo fatto è la domanda: «se il paziente mi dice la tal cosa, come devo rispondere?».
È ormai perduta la capacità di rispondere immediatamente comprendendo il contenuto emotivo trasportato dalla domanda del paziente e non resta che ricorrere alla tecnica. Un approccio esclusivamente tecnico, intendendo ora con questo termine soltanto la applicazione di regole, è certamente dannoso nella situazione terapeutica. Tende a diventare sterile routine e spesso esprime soltanto le difese del terapista: ne più ne meno che un rituale compulsivo, dal quale il paziente non trarrà certo alcun vantaggio e che serve semplicemente a dare sicurezza al terapista. Da notare che molto spesso proprio in questa fase si trovano i psicoterapisti apparentemente più sicuri: quelli che sanno perfettamente cosa si deve fare, che strombazzano la loro oggettività, che si fanno un idolo della regola. Un modo come un altro di difendersi dall’ansia generata dal rapporto col paziente. In questa fase si ritrovano i fanatici della psicologia, che spiegano tutto, magari sulla base di un solo test mentale. E sono quelli che hanno alienato gran parte delle simpatie che forse la psicologia avrebbe raccolto se presentata come fatto umano e non attraverso la disumana mediazione dell’ossessivo perfezionismo e dell’ipertrofìa della tecnica. Non c’è nulla che si manifesti con più indisponente sicurezza della pseudo-sicurezza di chi attraversa questo livello della preparazione psicologica.
In una terza fase, che può avvenire anche spontaneamente e senza aiuto esterno, ma che in maniera molto più rapida avviene quando l’aiuto si concreta in un trattamento analitico didattico e nel controllo da parte di un terapista sperimentato, il comportamento terapeutico tende a diventare man mano più adeguato, ma non perchè siano state imparate le frasi da dire o gli atteggiamenti da prendere in ogni situazione: è stato compreso il significato delle situazioni, queste sono state vissute emotivamente in prima persona, viene compreso che non è il significato verbale della frase adoperata in terapia ad avere valore terapeutico, ma il contenuto emotivo di essa: ci si sensibilizza a questo contenuto emotivo e man mano si ripercorre la strada verso la sicurezza. Ciò attraverso una serie di fenomeni di maggiore o minore durata, che col trattamento didattico e col controllo è possibile dirigere adeguatamente.
Vediamo ora l’ultima fase, quella cioè in cui è stato raggiunto un elevato livello di sicurezza che si traduce in un corretto ed adeguato comportamento terapeutico. Questo momento, nello sviluppo della personalità del psicoterapista non coincide certo con le maggiori letture effettuate o con la maggiore preparazione intellettuale ad affrontare Ì problemi psicologici. È il momento in cui è stato raggiunto il traguardo di quella che io ho chiamato «spontaneità tecnica». Chiarisco questo concetto: la spontaneità tecnica si ha quando un psicoterapista nella situazione terapeutica si comporta come sente di fare e poi al confronto con la situazione di controllo, vede che il suo comportamento è stato tecnicamente corretto. La discrepanza tra il comportamento sentito e quello adeguato sarà l’indice di misura del livello di capacità tecnica raggiunto. Questo controllo, che nelle prime fasi della preparazione avviene in genere con una terza persona, successivamente od anche contemporaneamente avviene anche con un vero e proprio esame di coscienza in cui si confronta il come ci si è comportati in una seduta terapeutica col come sappiamo che ci si dovrebbe comportare. Viene così eliminato il chiedersi di volta in volta ed in ogni situazione « cosa si deve fare? ». Sembra un controsenso, ma è un ritorno alla fase di partenza; questa forma di spontaneità, che corrisponde all’esser avvenuto un reale processo di assimilazione delle esperienze dirette con i pazienti, delle proprie esperienze emotive e delle letture effettuate, è il vero punto d’inizio della carriera psicoterapica. Il comportamento è diventato naturale, spontaneo, automatico direi, ma sempre con la presenza di un controllo su se stessi che però non blocca più nelle singole situazioni, ma agisce come sistema di fondo su cui articolare il proprio comportamento; che, naturalmente progredendo il processo di apprendimento, si affinerà sempre di più raggiungendo una gamma sempre maggiore di sfumature. È ovvio infatti che lo sviluppo della personalità terapeutica non si esaurisce e prosegue sempre attraverso crisi di maggiore o minore entità, allo stesso modo del processo di sviluppo della personalità di qualsiasi individuo. Per ognuno vi saranno dei limiti, a volte insuperabili che costituiranno i suoi limiti umani di fronte agli altri e che faranno sì che la riuscita terapeutica sia migliore in alcuni casi rispetto ad altri.
In un certo senso si ha una costante personale che può essere desunta dalla ripetizione di determinati errori o stati di disagio in determinate situazioni terapeutiche. Per adoperare un termine caro ad una certa psicologia, questo è il profilo professionale di quel determinato psicoterapista. Questi limiti possono essere a volte irriducibili, ma ciò non deve portare al negativismo, quanto invece ali’accettazione di essi al sapersi muovere nel loro ambito in un continuo tentativo di superarli, incrementando al massimo le proprie possibilità di sviluppo. Questa, direi, è la posizione esistenziale di chi sceglie come atto del proprio lavoro l’aiutare gli altri a risolvere ì problemi emotivi con mezzi psicologici e cioè attraverso il rapporto umano.”